Cosa ci sta dietro?

“Crangon Crangon” di Daria Greco

Una delle caratteristiche che definiscono una ricerca è avere delle domande da porsi. Inizialmente sono più le domande che le sicurezze, si inizia il percorso di esplorazione sulla traccia delle questioni che ci si pone. E spesso, andando avanti nella ricerca, le domande che inizialmente sembravano poche si dispiegano ancora più numerose quanti più elementi di sicurezza acquisiamo.

Masterclass condotta da Daria Greco presso PimOff

Che cosa è il nostro dietro? E cosa significa andare indietro? Mi sono subito posta queste domande quando ho visto “Crangon Crangon” di Daria Greco, nella presentazione della selezione Citofonare Pimoff. Il nome curiosamente ripetuto di questo gambero, unito all’interesse per la descrizione del lavoro della coreografa romana, mi ha portato ad iscrivermi alla masterclass. Sono arrivata al PimOff il 9 aprile con le mie domande in borsa e ho potuto tirarle fuori, esplorarle grazie al lavoro di Daria Greco. La coreografa ha deciso di condividere con noi parte delle domande che hanno dato inizio o hanno costellato l’attività di ricerca per il pezzo, proponendo le sperimentazioni che hanno costituito il processo creativo. Le domande condivise venivano poste da Daria a noi, mentre noi interrogavamo il nostro corpo, il nostro dietro e i suoi significati. Mentre cercavamo delle strategie per adattarci a questa nuova direzione di spostamento, ponevamo in questione la nostra camminata, chiedendoci ogni volta piccole cose diverse. Cosa ci muove verso dietro? Forse qualcosa che ha origine all’interno, forse uno stimolo esterno. Come ci fa sentire andare verso dietro? Nonostante si usi l’espressione ‘fare un passo indietro’ per indicare qualcosa di negativo, molti di noi si sono inaspettatamente sentiti a loro agio nel compiere questa esplorazione; mentre altri sono stati pervasi da un senso di insicurezza, di difficoltà. Questo ci ricorda come, sempre, di fronte ad una ricerca che si pone delle domande i primi ad essere interrogati siamo noi stessi: provando a camminare come gamberi abbiamo notato quanto il nostro corpo non sia predisposto per seguire questa direzione; sono emerse questioni motorie interessanti insieme alle loro implicazioni emotive, mettendoci di fronte a quello che siamo, fatti della nostra personalità, delle nostre esperienze, limiti e paure.

Interrogare il nostro spazio dietro ha significato tuffarsi in uno spazio ignoto, in cui credo che ogni partecipante abbia ritrovato pezzi di se stesso come anche scoperto qualcosa di nuovo. Questi pezzi nuovi che avevo visto per la prima volta non andavano, però, a costituire risposte, bensì a moltiplicare le domande con cui ero entrata alla masterclass. Così ho coltivato ancora un po’ le mie domande, a cui ora si erano aggiunte anche le domande di Daria Greco, come si fa con i fiori: le ho innaffiate sorprendendomi a camminare indietro in qualche frangente della mia vita e le ho tenute vive per pormele di nuovo di fronte alla restituzione dello studio di “Crangon Crangon” il giovedì dopo.

Valentina Sansone in “Crangon Crangon” di Daria Greco, foto di Vittorio Antonacci

Sedendoci sulle poltrone vediamo la danzatrice, Valentina Sansone, già sul palcoscenico intenta a camminare indietro, lentissima. E posso già apprezzare la fortuna di aver sperimentato quella stessa sensazione motoria, in quello stesso spazio, provando un senso generale di “al contrario” dovuto, innanzi tutto, al fatto di aver assunto il ruolo di chi osserva e non più chi si muove all’indietro; poi la sensazione che il fronte della performance fosse dietro, il fondale bianco. Filippo Lilli ci immerge in qualcosa che sembra davvero un paesaggio sonoro: più ci spostiamo con l’ascolto in questo ambiente, più oggetti sonori scopriamo e sentiamo, esattamente come sembra fare la perpetua camminata all’indietro della performer. Le cellule musicali che si ripetono ricalcano la ripetizione costante di questo spostamento così inorganico. I nostri occhi dopo un po’ si abituano così tanto alla camminata indietro che questa diventa il nostro nuovo sistema di riferimento ed è così che emergono con potenza le piccole variazioni, come salti che punteggiano di verticalità la camminata, o incertezze di un braccio che cerca qualcosa che non conosce dietro di sé. Le variazioni motorie molto sottili permettono il senso di continuità e allo stesso tempo il cambio, visibile solo nel tempo. Verso la fine della performance ero sicura che se la performer avesse camminato verso avanti lo avrei trovato davvero strano. Il meraviglioso costume realizzato da Vittorio Gargiuolo sembra riprodurre la nostra architettura interna ribaltata all’esterno, dando alla performer un aspetto misterioso, come una corazza che cancella ancora di più i riferimenti di avanti e dietro del corpo umano. Siamo stati ipnotizzati per quaranta minuti, con gli occhi che desideravano esplorare la zona che Valentina, invece, non poteva vedere. Ci siamo domandati insieme a lei che cosa avrebbe trovato dietro, che cosa sarebbe successo. Ci siamo chiesti in che cosa si sarebbe trasformata, dove sarebbe finita con quel suo spostamento che sembrava infinito. Che cosa significa il nostro dietro? E cosa significa andare indietro?

Penso che Daria Greco si sia posta queste domande e che continui a porsele: me lo fa pensare il quaderno degli appunti tirato fuori dalla coreografa per segnarsi i feedback del pubblico dopo la performance. Penso che Valentina Sansone abbia posto queste domande a se stessa e al suo corpo costantemente, nonostante la dimestichezza raggiunta dalla sperimentazione di questo strano modo di incedere. Come partecipanti alla masterclass ci siamo posti queste domande e abbiamo cercato le nostre risposte. Come spettatori ci siamo posti queste domande guardando la performer che cercava le stesse risposte di cui eravamo alla ricerca noi.

È così che l’idea di Daria Greco è esplosa anche oltre alla sua realizzazione performativa, rivelando il suo potenziale di ricerca infinita e contagiosa. Chiunque si sia avvicinato al lavoro, come performer o come fruitore, ha dovuto porsi delle domande e mettersi alla ricerca di qualcosa. Chiunque abbia affondato le sue mani anche poco in questa ricerca ha potuto vedere quanto sia potenzialmente interminabile. Non è questa una delle modalità di condivisione artistica più profonda e stimolante? Farsi le stesse domande che hanno spinto il coreografo a creare, ripercorrere a ritroso gli interrogativi articolati nel processo creativo, porsi le questioni che si pone la coreografia stessa. Non è forse questo uno dei modi più attivi di approcciarsi all’arte? Voler guardare dove normalmente non guardiamo, provare ad andare in luoghi che non conosciamo, chiederci “cosa ci sta dietro?”.

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