“I giovani non vanno a teatro”: ma a quale teatro?

dalla pagina Instagram di Roberto Mercadini

E’ un peccato che così pochi giovani frequentino il teatro e, infatti, non smettiamo mai di lamentarcene sia in quanto cittadini sia, soprattutto, in quanto addetti ai lavori. Gli elementi che concorrono a questo risultato sono tanti ma, spesso, al posto di provare a dispiegare la complessità che sta intorno a certi fenomeni, preferiamo occuparci di scaricarne la responsabilità. Troppe volte, infatti, la narrazione che passa attraverso la politica e le istituzioni ritrae questo grande e generico insieme dei “giovani” come una generazione di disinteressati e di indifferenti alle questioni artistiche: quindi sembrerebbe che il problema del teatro sono i ragazzi che non lo frequentano, come un supermercato pieno e rifornito in cui non va nessuno a comprare. Pare ci sia più la voglia di trovare un colpevole che di fare fronte al problema, capirne le cause e le possibili soluzioni. Forse intuiamo il fatto che andando in fondo alla questione nessuno verrebbe sollevato dalla responsabilità di cambiare qualcosa: le istituzioni potrebbero aprirsi al dialogo e aggiornarsi, l’istruzione potrebbe ripensare i suoi sistemi educativi, i direttori potrebbero ripensare i programmi teatrali, gli operatori e gli artisti potrebbero imparare a comunicare meglio con la società dentro cui si inseriscono. Insomma, un supermercato in cui non va nessuno si chiederebbe se la merce che vende interessa alla gente e se il modo in cui la vende è efficace.

È auspicabile che questa accusa sterile si trasformi, nelle mani di artisti e addetti ai lavori, in una domanda sul proprio lavoro. Perché i giovani non vengono a teatro? Vorrei prenderne in causa una delle tante motivazioni e metterla in crisi grazie all’esempio di un artista del teatro che ultimamente ci sta facendo rivalutare un certo tipo mentalità.

Una delle ragioni per cui le generazioni giovani non hanno interesse nell’andare a teatro è l’impossibilità di trovare qualcosa nelle programmazioni che parli direttamente a loro, attraverso il linguaggio della loro epoca e contesto, di qualcosa che possano comprendere e con cui possano empatizzare.  Le stagioni teatrali sono piene di opere preziose e di fondamentale importanza che, però, sono state scritte nel migliore dei casi più di cento anni fa e fanno fatica, per questo, ad agganciare la sensibilità dei più giovani che costituiscono per la maggior parte un pubblico non specializzato, ovvero un pubblico che non ha gli strumenti tecnici, l’educazione o il sistema di pensiero necessari a cogliere la possibile trasposizione estetica e concettuale delle opere nel nostro secolo. La riflessione che parte dalle forme estetiche può essere presa in esame a prescindere dal contesto temporale in cui viviamo ed è questa ricchezza a fare di certe opere capolavori immortali, ma se si è un giovane con pochi strumenti per muoversi in questa indagine si diventerà più facilmente spettatori di qualcosa che parli direttamente alla propria generazione, col proprio linguaggio contestuale e una trattazione dei temi contemporanea.

C’è un modo di far teatro che lavora intorno al linguaggio e, quindi, riesce a immergersi nell’epoca in cui vive riscoprendo la bellezza e le possibilità immaginative che ci hanno lasciato in eredità i grandi capolavori. Attraverso una lettura personale e intelligente di queste opere si possono dare chiavi di lettura e tracciare percorsi nuovi per indagare temi di interesse e bellezza universali; questo teatro, prezioso ed estremamente competente, parla alla nostra contemporaneità a tal punto da invogliare “i giovani” ad andare a teatro.

Roberto Mercadini ci ha proposto un viaggio, il 30 giugno a Desio, attraverso la sua visione della commedia di Dante Alighieri prestandogli «voce e corpo» (cit. dallo spettacolo) per parlare del parlare, per parlare del linguaggio stesso. 400 persone per lo più “giovani” hanno invaso Villa Tittoni e tanti altri sono rimasti tristemente fuori ma avrebbero voluto andare a vedere “Dante. Più nobile è il volgare”. È indicativo che 400 giovani siano andati a teatro per sentir parlare di un grande classico, un cult della cultura nostrana di cui tanto si è già studiato (e talvolta con pesantezza) a scuola. Risultato della trasformazione dell’artista, il racconto della Divina Commedia è così scorrevole e piacevole, così comprensibile e fruibile oggi, che sembra un’opera scritta ieri. Mercadini ci accompagna nella rilettura di alcuni tra i più poetici canti adattandoli ad un interesse più odierno, aiutando a tracciare connessioni tra l’arte di un tempo e la vita di oggi sia chi non ha gli strumenti per vedere queste relazioni, sia chi ne vede di diverse. Grazie al personalissimo e unico modo di raccontare di Roberto Mercadini, capace di fare emergere la bellezza della nostra lingua dal capolavoro dantesco e di esplorare i mille modi in cui si può usare il linguaggio per comunicare e fare arte, 400 giovani in Villa Tittoni hanno riso di gusto e si sono divertiti, godendosi un’opera teatrale che tratta di una commedia di 700 anni fa.

Quando sentirò di nuovo dire che i giovani non vanno a teatro, mi verrà da domandare “a quale teatro non vanno?” perché, evidentemente, c’è un teatro che riempiono in centinaia e con un grande entusiasmo. La fila per scambiare due parole con Roberto Mercadini alla fine dello spettacolo era immensa, volevano ringraziare, volevano restituirgli un sorriso, volevano e stavano facendo parte del teatro come forma artistica e del suo potentissimo lavoro intorno al linguaggio. I giovani vanno a teatro eccome quando incontrano una proposta che li interessa, li coinvolge, li ispira e li stimola: stanno un’ora a sentir parlare di un’opera del 1300 e ne vorrebbero ancora di più. L’intelligenza linguistica e l’arte fuse nel lavoro di Roberto Mercadini ci dimostrano che quando il teatro riflette sul suo linguaggio può parlare al nostro secolo e interessare e, addirittura, divertire i giovani a dispetto di ogni accusa di superficialità.

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