Ora che abbiamo pensato alla Liveness nella pedagogia della danza, costretta a trasformarsi per i tempi che corrono, arriviamo al fulcro poetico di questa forma d’arte, a cui tende anche l’apprendimento tecnico: la performance.
Due delle caratteristiche della Liveness che concorrono come elementi costitutivi della performance sono lo spazio e il tempo, che siamo ormai abituati a pensare, grazie agli studi sulla fisica, come co-dipendenti. La quarantena ci ha portato a notare innanzi tutto la trasformazione generale della percezione di questi due elementi: viviamo uno spazio molto ridotto rispetto al normale, potendo raramente uscire fuori di casa, e il tempo che viviamo ci sembra come dilatato a causa dello svuotarsi di buona parte delle nostre giornate. I giorni sono lunghissimi, gli spazi quasi soffocanti.
Due delle tre figure che orbitano intorno ad una performance (il creatore, il performer, lo spettatore: Triadic Perspective, Dc. Valerie Preston-Dunlop) giocano costantemente con la percezione di tempo e spazio per perseguire il fine artistico e cercano di non subirli, organizzandoli nella fase creativa: stiamo parlando del coreografo e del performer.
Il rapporto tra queste due figure della Prospettiva Triadica evidenzia la fase del processo creativo, ovvero di tutte quelle pratiche e metodi che si mettono in atto al fine di organizzare il materiale danzato componendolo in una struttura di più ampio sguardo, che sarà poi il “prodotto” (più in là parleremo del motivo per cui sono necessarie le virgolette) d’insieme da presentare al pubblico. La momentanea sospensione lavorativa dovuta al CoronaVirus, in alcuni casi, ha interrotto la fase del processo creativo o ne ha reso complicato l’inizio. Quando potremo tornare a teatro e la programmazione riprenderà probabilmente alcune delle compagnie di danza dovranno ridurre di molto le tempistiche di creazione per poter rispettare le date scelte. A meno che non si trovi un modo di lavorare nonostante la mancanza della presenza corporea…
È probabile che il coreografo alle prese con l’ideazione di una pièce sia costretto dalla quarantena a fare un lavoro ancora più individuale del solito, perché ricordiamo che, anche in tempi ordinari, la creazione è prima di tutto un lavoro su e con se stessi. Molte pratiche compositive odierne si poggiano su una fase di sperimentazione, l’improvvisazione, che coinvolge il coreografo e il danzatore ad armi pari: una fase in cui l’idea viene messa a disposizione di tutti per avere più punti di vista sul contenuto e provare a cercare forme diverse di investigazione del concetto. Questa modalità risulta più complessa, ma non impossibile, nel caso del lavoro via webcam perché viene meno la percezione, e la successiva valutazione, da parte del creatore, della dinamica generale, importante per ottenere una visione di insieme della forma.
Altre modalità di composizione risultano, invece, dalla sperimentazione personale e solitaria del coreografo che sviluppa l’idea (spesso col proprio corpo) scegliendone un’estetica che andrà a comporre un materiale danzato e quest’ultimo verrà solo successivamente passato al performer; in questo caso il ruolo del danzatore è meno collaborativo: via webcam gli si può, magari, insegnare il materiale di modo che una volta finita la quarantena si possa sfruttare l’incontro fisico in sala per organizzare i contenuti in una totalità confezionata. Certo, nel caso l’idea di partenza richieda una inter-relazione tra i danzatori (ad esempio contatti o scambi vicendevoli di peso), ovvero nella maggior parte dei casi escludendo i Solo, la creazione via webcam del materiale non potrà che rimanere un contenuto virtuale nella mente del creatore o del performer.
Diversa dall’improvvisazione, che può essere definita creazione istantanea, ma simile nel ruolo collaborativo del performer, è invece la vera e propria composizione formale che sempre più coreografi affidano ai danzatori (uno di questi è Forsythe), una volta passati i propri strumenti stilistici; il ruolo del creatore sarà poi quello di organizzare tra di loro i materiali, che provengono dalla trasmissione dell’idea e del contenuto da parte del coreografo al danzatore il quale poi ne sceglierà l’estetica. Riguardo a questa particolare tecnica compositiva è emersa in diversi casi una facilitazione notevole dovuta alla conoscenza di uno dei tanti sistemi di analisi del movimento (ad oggi gli studi di Laban e i suoi successivi sviluppi sembrano comporre il sistema di analisi più completo e funzionale, ma non l’unico) che possa fungere da strumento non indifferente se maneggiata sia dal coreografo che dal danzatore: qui il focus non è più l’estetica in quanto tale, ma la forma come risultato di un contenuto e di un’essenza, proveniente da un’idea esistente prima della rappresentazione; ad entrambi i ruoli sarà chiara la sostanza di cui si compone il movimento e, anche se la mediazione tecnologica della webcam falsa la precisione e la percezione della sua esternazione formale, le due figure professionali hanno dalla loro parte un sistema comune che dà un nome a ciò che possiamo vedere, e quindi riprodurre, rendendo più immediata la comunicazione reciproca.
Nel caso della creazione, come in quello dell’apprendimento coreutico, lavorare sul corpo in azione in un tempo e in uno spazio non è l’unico modo di occuparsi di una coreografia perché, come abbiamo già visto, prima della forma esiste il contenuto; questo può essere investigato in mille modi diversi che nutrono la danza di un sistema di pensiero, di percezioni, visioni e impressioni che si tramuteranno, una volta interiorizzati, in intenzione formativa (da Teoria della formatività di Luigi Pareyson) nel caso del creatore e in intenzione danzata nel caso del performer. Il lavoro sulla drammaturgia che ultimamente si sta sempre più inserendo nella pratica coreutica, sostiene l’estetica e la forma suggerendo spesso un sistema di significati presi in prestito da altre forme artistiche come l’arte figurativa, la musica, la letteratura; il drammaturgo è una figura che può servire da mediazione raccogliendo del materiale inerente all’idea che il creatore, poi, potrà selezionare, abbracciare o respingere a seconda della sua concezione o del suo personale gusto. Non tutti i coreografi hanno il piacere o la possibilità di lavorare con un drammaturgo e, dall’altro lato, non sono ancora moltissimi i drammaturghi che hanno voglia di lavorare con la danza, soprattutto quella contemporanea che si è sempre più slegata dalla narrazione e dal sistema semantico che sostituisce il movimento alla parola. Tanti coreografi fanno da sé questi lavori e capita che, per scelta, per tempistiche che non lo permettono o magari per scarso interesse, i performer siano spesso all’oscuro di questa fase così importante della creazione; questo periodo fuori dalla sala prove può essere occasione di scambio di materiali, di confronto e dialogo tra il creatore che nutre il performer delle impressioni che ha avuto lui stesso nell’atto di concezione e che può portare ad un risultato globale che amplifica e rende più profonda ancora la consapevolezza e l’intenzione dell’opera.
Questi sono solo alcuni degli aspetti di un processo creativo, vorrebbero essere spunti di riflessione sulla trasformazione che queste pratiche stanno attuando per poter sopravvivere di questi tempi. Come nel rapporto tra arte e vita, lo straordinario ci racconta tanto di ciò che è l’ordinario, la normalità: ignorare questi aspetti sarebbe come sprecare una grande ispirazione artistica che, attraverso la trasmissione di questo terribile Covid-19, ci si sta presentando su un piatto d’argento…